racconto anonimo per il contest…
Si poteva ancora stare peggio.
Vennero su i fascisti, o quanto di più simile ai fascisti sapevano offrire queste attuali caricature un po’ tristi, ma molto fiere. I seguaci di una volta stavano finalmente seduti in poltrona e questo portò in città una ventata d’aria nuova, dopo anni di buona condotta e sorrisi da copertina.
Fu come se quel rumore di fondo, mai dissolto, avesse ritrovato voce.
Il Fondo, elettrizzato e in vittoriosa accelerazione.
____________________________________________
Si accorse di essere seguito e capì di averlo capito tardi.
Si aspettava un cosa del genere e in quel momento gli sembrò un fatto quasi naturale. Ci mise qualche secondo a fare i conti con quanto stava per succedere, ma, a parte i dettagli, c’era poco da fantasticare: lo sapeva lui, lo sapevano loro.
Non aveva idea di quanti fossero, se fossero lì per caso, poi uno gli gridò qualcosa dietro, dritto nel cervello e fu come un lampo. Ripassò istantaneo tutte le possibili ipotesi e relative conseguenze, ognuna delle quali lo lasciò francamente terrorizzato.
Vide fra quelli uno grosso con l’aria goffa, da coglione, piegarsi a raccogliere un pezzo di chissà cosa e tirarglielo contro con una forza che non gli avrebbe mai indovinato.
Era un ciccione alto e pesante, tutto tondo dentro a un giubbotto con le maniche troppo corte.
Quanti anni avesse non lo avrebbe saputo dire, un sempreverde-normo-italico, solo più grasso.
Esisteva, nella sua testa, un prototipo di camerata. Certi presentavano alcuni segni distintivi, ma in linea di massima erano tutti abbastanza ugualotti e lui, da sempre, faceva fatica a vederli diversi. Senza intenzione, tipo i cinesi. Questo, ricalcava il modello alla perfezione.
L’offesa del cino-fascista arrivò, forte e precisa addosso a tutte le considerazioni che per un motivo qualunque si era messo ad ammucchiare. Lo prese pieno su un fianco, quel pezzo di roba, mentre si girava di riflesso e iniziava a portarsi via. Fece un versetto risentito realizzando il dolore, poi imboccò la strada nell’unica direzione possibile e corse.
Fu soprattutto infastidito da se stesso, odiò quella sua fuga istintiva verso finali già visti, dovette riconoscere che niente di tutto quello che stava succedendo corrispondeva a ciò per cui era preparato, preventivamente disposto.
Esistevano delle regole, utili a evitare situazioni come quella e a non finire, per lo meno, a fare la preda un po’ per sfiga un po’ per distrazione.
Ma se n’era andato da solo, povero imbecille. Solo e a piedi si era offerto alla serata, trofeo
insperato per la gloria dei quattro o cinque che adesso gli stavano dietro.
Correva. E indovinava tutt’intorno la rabbia e l’eccitazione. Senza girarsi, in ogni istante sapeva che erano vicini e non si sarebbero fermati.
Pensò a quello goffo e forte, con la faccia da coglione e si chiese se lui non si fosse invece seduto, a un certo punto, per respirare.
Se lo immaginò ansimante e incazzato nero perché il fiato non gli reggeva, ma voleva continuare.
Voleva esserci come gli altri, nel momento in cui il pulcioso non ce l’avesse più fatta a scappare, o fosse inciampato, o una qualunque altra cosa. Voleva vedere, lasciargli sentire chi era che si sarebbe fatto male, alla fine. Voleva, con tutte le sue forze, guardare quella faccetta superba e piena di risposte essere zittita e gli occhi non trovare appiglio.
Si doveva arrendere, questo voleva. Lo avrebbero preso e addomesticato a quello pseudo-illuminato del cazzo, lo odiava. A lui e alla massa d’invasati cui una cultura blindata concedeva da anni la stessa superiorità morale che, di contro, condannava i suoi a una specie di eterna espiazione. Stasera aveva la possibilità di contribuire alla causa e di spiegargli un paio di cosette a quel principino della moralità: sapevano che l’avrebbero preso e l’idea lo elettrizzava.
Così, su per giù, suonava il pensiero del ciccione dentro alla sua testa. Articolò quello e molti altri ragionamenti nell’arco di pochi secondi.
Gli vennero in mente certi discorsi sulla politica del dopoguerra fatti anni prima con uno zio di suo padre.
Allora pensò a suo padre. Successe così all’improvviso che quasi rallentò, cercando di metterlo a fuoco, ma fu questione di un istante ed era già sparito da qualche altra parte.
Pensò alla strana tipa che quel pomeriggio lo aveva incrociato mentre usciva dalla tabaccheria e al glorioso due ruote che doveva essere ancora sotto casa, oppure no però si toccò la tasca della giacca e seppe che le chiavi se non altro, ce le aveva lì. Lì con lui che non sapeva più dov’era né verso dove correva. Sorrise.
Lo raggiunsero quando, senza essersene reso conto, perse il tempo di un incrocio e quasi finì investito da un furgone.
Desiderò, per un attimo soltanto, di essere lontano. Da loro e da ogni convinzione. Poi li guardò e dovette resistere alla tentazione di tendere il braccio destro e dire qualcosa di assoluto e definitivo nel dubbio, mena!
Gli furono addosso in meno di niente. C’era un parcheggio e svelti ci si infilarono, loro quattro e lui.
Li vedeva bene adesso e rimase sorpreso nel constatare che il ciccione c’era e non era troppo sudato, né paonazzo in volto come se l’era aspettato. Non era neanche così grasso, dopo tutto.
Erano brutti, molto incazzati e visibilmente divertiti dalla situazione.
Lui non pensò di potersi efficacemente difendere neanche per un secondo. Lo pestarono insieme e poi uno alla volta, per un tempo che non avrebbe saputo calcolare. Gridavano, nel frattempo, gli urlavano addosso un orgoglio ferito, l’eredità gloriosa e l’esaltante impresa. Non si stupì di nulla di quello che fecero. Non provò mai a parlare perché il dolore glielo impediva e perché lui di certi argomenti non aveva intenzione di discutere, rimase in silenzio.
Silenzio, vide il finto ciccione quando gli frugò gli occhi pesti da vicino, alla ricerca di conferme. Dovette rimanere deluso, perché una forza nuova e spaventosa lo invase. Si portò indietro allontanandosi di un poco, poi sentì il cranio gonfio di un rancore troppo grande per essere trattenuto.
Lo prese a testate e lo sbatté ancora, fino a quando il sangue non gli annebbiò la vista e rimase con quella testa tra le mani, incerto.
Venne uno dei loro a trascinarselo via
Si lasciò portare, il cino-fascio, verso casa.
La sua casa normale, ordinaria, accogliente e calda.