Con il mare alla nostra sinistra

di Cristian Giodice questo racconto è apparso su The clash – Lo scontro. Storie di lotte e di conflitti edito da Lorusso editore

Scendemmo dal treno che già la stazione brulicava di gente. Un pulviscolo di carbone aleggiava nell’aria satura della stazione, anche se dal passaggio alle linee elettriche erano trascorsi almeno una cinquantina d’anni.  Molti giovani riempivano di schiamazzi l’atrio spazioso, fuori viveva la città.

Arrivati dopo un viaggio interminabile, ci accolse un caldo soffocante. C’era così tanta gente, di tutti i colori e di tutti i pensieri, che la città sembrava un termitaio. Colonne di persone, con cappellini e tanto di torpedone, muovevano alla rinfusa nel piazzale antistante la stazione.

Gruppi di fricchettoni deodoravano l’ambiente con fumi inebrianti e invidiabili, mentre altri scandivano il tempo con i ritmi dei loro assordanti tamburi. L’afa insostenibile sfumava i contorni, gli occhi mi bruciavano per il sudore che gli colava dentro, i rumori e i suoni erano ovattati. Per chi ha occhio attento le differenze nella Babele indistricabile della piazza erano nette e riconoscibili: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Ai movimenti antagonisti si unì presto il mondo dell’associazionismo, numerose comunità religiose, i cani e i porci. Leggere la lista delle adesioni al grande show mi fece accapponare la pelle. Cooperative che fino al giorno prima sedevano dalla parte degli avidi padroni sfruttatori, avrebbero sfilato al fianco di noi sfruttati e precarizzati, da loro stessi, gridando i medesimi slogan contro i grandi del mondo. Pensai che il loro fosse un moto d’invidia, più che di rabbia.

Fortunatamente, dopo breve peregrinare, trovammo asilo in un parco adibito a campeggio per l’occasione, abitato da soli cattivi. Ci accampammo montando le tende tutte vicine, a semicerchio, cercando di riprodurre lo schema usato dagli indiani d’America sul sentiero di guerra.

Il nostro comitato vantava una dozzina di adepti pronti a farsi sentire. I nuovi li avevamo conosciuti fuori dal contesto lavorativo, un paio erano studenti di sociologia, un’altra, Serena, era una scrittrice in erba ma fondamentalmente un’inoccupata in cerca di prima occupazione. L’ultimo arrivato, il più giovane, si era presentato una sera alla riunione del comitato, così, come apparso dal nulla. Ricordo che non disse una parola per tutto il tempo, se non il suo nome, Luca.

Luca portò una vampata di entusiasmo nel comitato, il suo silenzio apparente si ruppe quando gli chiedemmo di partecipare alla stesura di un volantino contro la precarizzazione del lavoro. Entusiasta, cominciò a parlare e non la smise più. Aveva un’intelligenza acuta e, nonostante la sua giovane età, uno sguardo che ispirava fiducia. L’arrivo dei nuovi, con le rispettive esperienze e differenze, fece sdoganare il comitato dalle mura della nostra azienda, aprendolo all’universo dei lavoratori tutti.

Equipaggiati con il kit del “buon rivoluzionario”, ma nell’intimo con una  paura disarmante, facemmo il nostro ingresso in società. Avevamo deciso di partecipare alla piazza tematica sul lavoro, organizzata dal sindacalismo di base e dai precari autorganizzati. L’appuntamento era in una piazzetta, poco lontana dal centro, di fronte alla famigerata zona rossa, l’area invalicabile, delimitata da alte grate blu, dove il padronato si sarebbe riunito per decidere di noi. Lì, vista l’occasione, vigeva la legge marziale.

Fatti i saluti di rito ci immergemmo nell’attività preminente di queste occasioni, l’attesa. Aspettare che tutto cominci è esercizio non facile, che richiede preparazione e dedizione. Gli ingredienti fondamentali che rendono unici questi momenti, sono l’inesauribile noia e la latente tensione per quello che potrebbe accadere poi.

L’atmosfera era irreale. Le case che delimitavano la piazza, non godevano certo di buona salute. Gran parte dell’intonaco dei palazzi viveva ormai solo nella memoria popolare, mentre le ringhiere dei balconi, da tempo, avevano chinato il capo al potere devastante della ruggine e così, assottigliate dal cancro rossastro che non ne risparmiava nessuna, osservavano l’insolita scena caotica, come signore anziane che, sedute a bordo strada, commentano e mugugnano sugli accadimenti. Tutte le finestre avevano le imposte chiuse, i portoni erano sbarrati, i parcheggi vuoti. Come se la città fosse stata evacuata, c’eravamo solo noi.

La cosa più bella di quella piazzetta, dimenticata da dio e dalla giunta comunale, era la pavimentazione. Pietre di tutte le forme e colori, pessime imitazioni del beneamato sampietrino capitolino, si susseguivano in una suggestiva mescolanza di cunette e dossi, strapiombi piramidali e buche.

Mentre mi crogiolavo al sole, contemplando i dintorni e cullato da una leggera brezza carica di salsedine, fuori da ogni attesa, la quiete estiva fu spezzata dall’ingresso nella piazza di un centinaio di ninja, che silenziosamente si radunarono a pochi metri da noi.

Nessun saluto di rito si alzò dagli individui vestiti in nero che, dopo aver confabulato tra loro per alcuni minuti, cominciarono, con l’ausilio di martelli e mezzi di fortuna, a spaccare e sradicare le piastrelle multiformi che pavimentavano la piazza per farne, con tutta probabilità, oggetti da lancio. I ninja erano tutti grossi, enormi e tra loro si distinguevano chiaramente alcune figure femminili.

La maggior parte di loro indossava pantaloni di tuta o fuseaux neri, e delle felpe, rigorosamente con cappuccio issato sul capo, anch’esse nere. I passamontagna calati erano più variegati e fantasiosi nei colori. Certo il nero andava comunque per la maggiore.

A noi sembrò di non conoscere nessuno dei componenti del laborioso gruppo, anche perché, così imbacuccati, erano irriconoscibili. Il primo pensiero che mi venne fu per il caldo insopportabile che dovevano patire quei tizi.

Inebetiti dall’inatteso spettacolo il nostro istinto da pecoroni si acutizzò, raggiungendo il suo acme nel momento in cui lo squadrone di ninja, appesantito dal carico di calcinacci, si mosse in corteo. Da buon gregge, sfiancato dalle ore di attesa, seguimmo il plotone in nero, il che si rivelò presto un grave errore. Appena svoltammo l’angolo della strada, ci immettemmo in un viale alberato, e i ninja, divisi in gruppetti, iniziarono a spaccare tutto quello che c’era intorno, prediligendo le vetrine degli istituti di credito e affini. Presto colonne di fumo si alzarono da alcune automobili in sosta che, con tutta probabilità per autocombustione, presero fuoco in pochi secondi, e fu l’inferno.

Con Luca e gli altri ci perdemmo quasi subito. Mi sentivo confuso ed eccitato, non sapevo perché seguissi l’orda umana sbraitando io stesso. Volevo chiedere ai padroni del mondo il perché di tali cambiamenti rovinosi per tutti e tutte noi. Le domande cominciai a urlarle da subito, chiare, dirette: perché?

Dopo un breve tragitto fatto di colori sfuocati e odori nauseabondi, intravidi in lontananza migliaia di ominidi vestiti tutti uguali, in blu scuro, che brandendo scudi trasparenti e manganelli nervosi, si godevano lo spettacolo metropolitano senza batter ciglio; anzi, in alcuni momenti sembravano addirittura compiaciuti degli eventi. La cosa in quel momento mi colpì relativamente visto che la mia attenzione era attratta dalla perfetta organizzazione dei ninja, che si inframezzavano tra il corteo e lo schieramento di ominidi.

I molti gruppetti, composti da cinque o sei elementi al massimo, si muovevano veloci ed efficienti, radunandosi e disperdendosi con perentori ordini dettati dai diversi capisquadra che, alzando il braccio e urlando parole incomprensibili, decidevano i movimenti e gli obiettivi da colpire. Mi fece strano tale organizzazione, quasi militare, che i ninja adottavano con tanta disinvoltura. Negli anni di militanza attiva ne avevo viste di cose e forse proprio per questo motivo pensai delle malignità che il futuro, tristemente, mi avrebbe in parte confermato. Non criticavo l’azione in sé, anzi ritenevo giusto colpire le banche e tutto quello che rappresentano, ma esporre il corteo a tali rischi mi sembrava una vigliaccata.

Un manifestante barbuto, poco distante da me, dopo aver osservato in disparte il lavoro dei ninja, si avvicinò a uno dei capi squadra per chiedergli chiarimenti in merito e capire il senso di quelle azioni così imprudenti per il resto dello spezzone ignaro. Il ninja interpellato lo guardò con la fronte aggrottata e, anche se non sembrò capire cosa gli stesse dicendo quel manifestante, di tutta risposta lo colpì alla testa con la sua inseparabile mazza, che reggeva fiero come fosse un fucile. Il malcapitato cadde a terra tramortito in una maschera di sangue e venne soccorso da altri compagni che lo trascinarono via con gli sguardi attoniti e spaventati. Intanto il ninja che lo aveva colpito riprese, come se nulla fosse successo, a comandare la sua squadra, che con efficienza svizzera e rapidità militare eseguiva gli ordini impartiti.

Persi quasi subito di vista la scena perché, proprio in quel momento, un fiume di gente urlante mi travolse, trascinandomi via con sé. Quando la marea umana si quietò, mi ritrovai in uno slargo dove alla mia sinistra si ergeva un’alta scalinata in puro stile liberty e di fronte, nella prosecuzione del viale, si stagliava lo schieramento di ominidi in blu scuro, che vidi così bene perché inaspettatamente, in un batter d’occhi, i vari gruppetti di ninja in nero, che fino ad allora erano stati i protagonisti indiscussi della scena si erano dileguati, lasciando di loro solo le rovine e le auto in fiamme.

Putacaso, proprio allora, gli ominidi in blu scuro persero d’interesse per il ruolo di osservatori esterni, si accigliarono e decisero di intervenire per prendersi la scena rimasta momentaneamente vuota. Ovviamente, non essendoci più i  ninja tra noi e loro, gli ominidi caricarono rabbiosamente l’orda colorata ancora confusa dagli accadimenti, dando libero sfogo ai loro manganelli nervosi e senza fare economia di calci a chiunque capitasse a tiro.

Nel putiferio che si scatenò persi di nuovo tutti i miei del comitato, dopo che con tanta fatica eravamo riusciti a ricompattarci e decisi, vista la malaparata, di adottare una vecchia tattica rivoluzionaria e in un batter d’occhi mi ritrovai in cima alla scalinata liberty. Iniziò così una fuga interminabile che si protrasse per tutto il giorno.

Non ricordo come gli eventi si susseguirono dopo la mia ascesa sulla scalinata, certamente la paura è l’emozione che li accomuna tutti; ma ricordo bene che negli innumerevoli momenti di tensione che ci furono in quelle ore, notavo sempre la presenza di qualche ninja  che sfondava qualcosa o qualcuno e pochi attimi dopo che si erano dileguati, arrivavano gli ominidi in grigio o in blu scuro, i quali puntualmente continuavano a pestare chiunque gli capitasse a tiro.

Sembrava come quando a Pamplona liberano i tori per le strade della città… Bene, noi eravamo come quei tizi con il fazzoletto rosso legato al collo che corrono terrorizzati a tutta velocità, cercando un nascondiglio veloce e sicuro.

Nel tardo pomeriggio di quel giorno interminabile, quando ormai il sole regalava i suoi colori più caldi e le strade si tingevano di arancione, come fotografie ingiallite dal tempo, dopo ore di peregrinazione alla cieca per le vie e i vicoli della città, frammezzate da fughe, lacrimogeni e botte, riuscii a tornare alla base.

Lì ritrovai il comitato al completo e tirai un sospiro di sollievo. Alcuni erano riusciti a ricompattarsi, altri invece avevano incontrato compagni conosciuti e continuato con loro. Anche tra noi, ahimè, si registrarono dei contusi, ma niente che necessitasse dell’intervento medico. Le sirene delle ambulanze e delle auto degli ominidi, colonna sonora ininterrotta di quelle ore, risuonavano per le vie della città annichilita. Qualcuno più sfortunato che necessitava di cure ospedaliere, alle quali gli ambulatori mobili autorganizzati non riuscivano a far fronte, veniva adagiato a bordo strada in attesa dell’ambulanza di turno. Fu proprio in quell’atmosfera da lazzaretto, mentre correvo da una parte all’altra del capannone per prestare soccorso ai feriti, che giunse l’atroce conferma alle voci che dal pomeriggio erano passate di bocca in bocca per tutto il corteo, subendo le inevitabili iniezioni di fantasia e d’interpretazione, che davano per certa la morte di un manifestante colpito alla testa da un proiettile… vagante.

Passai la notte tra incubi e risvegli improvvisi, le immagini di quella battaglia urbana mi scorrevano davanti incessantemente. Mi risvegliai singhiozzando.  All’alba gli occhi gonfi e ancora irritati dai lacrimogeni, si aprirono con fatica e silenziosi iniziammo a prepararci. Il clima intorno era spettrale, l’aria ferma e calda, nessuno disse una parola. Qualcuno aveva le mani gonfie, perché usate per proteggersi dalle manganellate piovute il giorno prima e venne aiutato ad allacciarsi le stringhe delle scarpe e a infilarsi le felpe inumidite dalla notte estiva. Dopo circa mezz’ora eravamo pronti per muoverci di nuovo alla volta della città.

La manifestazione in programma quella mattina, dopo i fatti accaduti e l’assassinio commesso dagli ominidi, acquistò un valore incalcolabile per ognuno di noi. Alcuni però non se la sentirono di parteciparvi, chi per sacrosanta paura, chi perché troppo acciaccato per camminare; decisero così di aspettarci in campeggio. Anche il giovane Luca scelse di non scendere in piazza, non se la sentiva e quando venne a dircelo lo capii e lo invidiai profondamente.

In fila indiana, con le teste chine e gli occhi vitrei, percorremmo la distanza che ci separava dal resto del corteo che già invadeva le strade intorno al lungo mare. L’afa puntualmente mi annebbiò la mente, intorpidendomi. Il mare, affezionato spettatore, si godeva lo spettacolo; averlo sulla sinistra non mi rassicurava affatto, l’esperienza m’insegna che non è di buon auspicio. Sopra le nostre teste ronzavano numerosi elicotteri, mentre uno striscione, preparato in fretta e furia nella notte insonne, incitava:

Adesso ammazzateci tutti!

Tutto sembrava tranquillo in apparenza, il sole splendeva alto e la mia ansia, dopo lungo e lungo tempo, mi concesse di nuovo di respirare senza affanno. Pensavo incessantemente a quel giovane e sconosciuto compagno ammazzato come una bestia da macello, i miei occhi non smettevano di produrre lacrime dal sapore amaro. Mi guardavo intorno cercando uno sguardo complice che potesse rassicurarmi, mi ricambiò una ragazza dalla rara bellezza mediterranea  che, riconoscendo nel mio sguardo la sua stessa paura, mi sorrise con complicità e comprensione.

Quando ancora i miei occhi incrociavano quelli di lei, inaspettatamente  dall’alto dei palazzi che si ergevano ai lati dello stradone che stavamo percorrendo da un’eternità,  una pioggia di candelotti lacrimogeni cominciò a caderci addosso, rompendo la quiete apparente di quel momento e sprofondammo di nuovo negl’inferi. Il corteo, sorpreso, si spezzò in due e da una via secondaria, per l’ennesima coincidenza di quei giorni, entrò in scena un enorme squadrone di ominidi armati di tutto punto che, battendo il passo con i manganelli sugli scudi, fece rotta verso di noi e ci si parò davanti intimandoci l’alt. Noi dicemmo loro di togliersi davanti e di lasciarci passare, perché dovevamo dire a quei porci del meeting che le scelte fatte da loro a noi non andavano bene, che stavamo male in queste condizioni e che le nostre vite erano diventate molto più brutte di prima; noi dovevamo dire a quei porci, che il giorno prima era stato commesso un omicidio con un’esecuzione sommaria e che i responsabili, i mandanti, erano loro, nient’altro che loro. Noi gridavamo vendetta! Ma gli ominidi niente, rimasero immobili. Io ne sfiorai uno per vedere se era vero o di cera. Era vero.

Dopo alcuni istanti d’indecisione tornammo ancora sotto agli ominidi, urlando loro di levarsi e cominciammo a spingere. Le maschere di cera indietreggiarono leggermente e allora noi spingemmo ancora più forte. Uno degli ominidi, evidentemente il capo, perché vestiva in modo leggermente diverso, diede l’ordine di caricare.

Le immagini mi si sovrappongono e si fanno confuse; ricordo centinaia di corpi cadere sotto i colpi dei manganelli nervosi, fiotti di sangue riempire lentamente gli interstizi del piastrellato che ornava il passeggio. I rumori dei colpi d’arma da fuoco, sparati a ripetizione, si distinguevano nitidi tra le urla straziate della gente in fuga. Lo scontro fu violentissimo. Noi del comitato rimanemmo incordonati, impauriti e tremanti, fino a che gli ominidi non ci furono a pochi passi, poi saggiamente scappammo.

Nella fuga sentii qualcuno afferrarmi la mano, mi voltai leggermente e riconobbi la chioma rosso fuoco di Marco il filosofo, come lo avevamo soprannominato per la sua aria seria e assorta. Cercai di rassicurarlo stringendo a mia volta la presa e in un attimo venimmo sommersi dalla massa fuggente. Non lo lasciai, lo tenni forte. Anche quando mi sentii cedere il braccio, quando gli occhi accecati dai lacrimogeni mi bruciavano da morire, lo tenni forte. La vista mi si annebbiò e non vidi più niente, era tutto fumo, botte e fughe. Ma non lo lasciai e non lo avrei lasciato per nessun motivo.

Indietreggiammo rapidamente e solo allora ci accorgemmo che altri ominidi, questa volta vestiti in grigio, avevano chiuso la strada dalla quale, pochi minuti prima, il corteo aveva raggiunto il lungomare. Eravamo in trappola.

Del tutto inaspettatamente venni colpito da un manganello nervoso, che scaricò tutta la sua nevrosi sulla mia testa ignara.

Buio.

Quando riaprii gli occhi vidi gente sanguinante scappare alla cieca cercando un riparo e altri che per evitare di rimanere schiacciati dalla folla, saltavano in un fossato che solo allora notai.

Fu una mattanza.

Dopo interminabili ore di fuga e di scontri, esausti, riprendemmo la via del campeggio, tremanti e stanchi, con l’idea di raccattare le nostre poche cose e di prendere il primo treno che ci avrebbe potato via da lì. Mi sentivo un animale braccato, il cuore mi batteva all’impazzata e ogni tanto lo sentivo saltare un colpo. L’ansia si era ripresa il mio respiro. Arrivati, trafelati e consunti, alcuni studenti che stavano presidiando il cancello d’ingresso ci raccontarono che gli ominidi, approfittando dell’assenza dei più, avevano fatto irruzione nel campeggio straziando zaini, giacigli e arrestando tutti quelli che c’erano. Pensai subito al giovane Luca, al suo sguardo di quella mattina e all’invidia che avevo provato e mi sentii in colpa.

Cominciammo a cercarlo freneticamente tra le tende strappate e gli zaini ammassati. Lo cercai addirittura sulla terrazza dell’edificio scolastico che si ergeva a pochi metri dal nostro accampamento, sperando che fosse sfuggito all’arresto nascondendosi lassù, ma non lo trovai. Gli ominidi avevano preso anche lui. Un compagno ferito, che soccorsi alla buona con delle bende che avevo ricavato strappando una maglietta, mi disse che li avevano portati in una caserma lontana. La famigerata caserma che di lì a poco avrebbe fatto il suo ingresso trionfale nella storia.

Luca fu liberato dopo qualche giorno, ad aspettarlo al binario capitolino c’eravamo tutti. Quando il treno entrò in stazione, pugno al cielo e sguardo fiero, Luca ci salutava dal finestrino. Il racconto di quei giorni fu agghiacciante, per quel poco che ci raccontò. Non aveva voglia di parlarne e noi non insistemmo mai, i suoi occhi erano di ghiaccio, come quelli di chi ha visto la morte in faccia. Il giovane Luca rimase profondamente scosso dalla prigionia, tanto che per molto tempo perse la sua caratteristica parlantina.

Ce l’eravamo vista brutta…

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