Tappeto di foglie morte e polline
è strato denso di humus prolifico.
Dentro la fabbrica, dai vetri rotti
respira il vento. Cosa c’è da fare?
Potenza cresce all’ombra dell’acciaio
e dei platani. Nel punto di fuga
del padrone, s’allargano altre vaste
prospettive. Riprendo, e curo, il bene.
Faccio comune nell’arcipelago
del disordine, con nette linee che
legano. Tela tessuta, è fare sé
forte. Pazza, dentro, l’idea m’assale.
E prossima sarà ossessione se non
agisco: precario, un migrante
tra desideri vitali, mentre si dà
l’autonomia, ride e sussurra.
Tra binari rotti di silenzio, là
scintilla un’unghia di luce. S’accende,
adesso s’accende! E prende di vita,
dopo tanto soffiare e contro
il cerchio, un’iperbole che significa:
più che mai, con. E s’allarga un giusto
respiro, un’assemblea. Distanze,
prendo, dal dramma voluto in alto:
quel dolore capitale portante,
verticale e unica volontà
di dominio. E qui, ora, faccio
scelte contrarie di moltitudini.
Mischia, dentro la polvere voglia di
studio, lavoro e luce clandestina.
È Roma, Portonaccio, senza sole
di giugno duemilatredici il primo.
È abbraccio sporco forte di grasso,
inchiostro e risate. Idea. Pazza.
Complessa unione è la fabbrica
ferro che batte e rumore di casa.
Les Voleurs